giovedì 20 gennaio 2011

Com'eravamo: Vincenzina e la fabbrica


Oggi alle 14.54 di EDOARDO QUERCIA

Avevamo i capelli lunghi,
lunghi secondo il livello
di tolleranza, in genere
modesto, dei nostri severi
genitori; avevamo dismesso
il cappotto rivoltato,
giacché, grazie a qualche
promozione scolastica, ci
eravamo conquistati il diritto ad un soprabito Lebole (i più audaci e sfrontati, vagamente motorizzati, addirittura un giaccone o un eskimo, ovviamente al mercato delle pezze americane di Resina); quelli ai quali fu consentito lasciarono crescere la barba o i baffi, più o meno inconsapevole bisogno di rottura semantica con il nostro universo mondo, figlio, legittimo o illegittimo, della cultura del ventennio.

(molti di noi, quasi tutti, abbiamo conservato questo vezzo della peluria al viso, in qualche modo ci siamo identificati in essa, anche quando cominciava a cambiare colore).
Diventammo comunisti con la stessa naturalezza con cui diventammo adulti. Eravamo antifascisti, ma, soprattutto, antidemocristiani.

Avvertivamo una astiosa, insopprimibile, commiserazione per i nostri coetanei che si erano buttati con la “pagnotta”.

Leggevamo molto (la vista era più buona, allora) e studiavamo, quasi tutti, con profitto.

Amavamo le canzoni, molto. In realtà, generalmente avevamo una scarsissima cultura musicale: sognavamo e c’innamoravamo con i testi, al punto che ancora oggi li ricordiamo perfettamente.

C’immergevamo e ci confondevamo nella “situation comedy” narrata e della musica ce ne fregava poco, almeno fino a quando non esplosero le cover.

All’inizio, non capivamo perché ci piacessero delle canzoni con testi banali; solo dopo scoprimmo che stavamo lentamente imparando ad apprezzare la musica, in quanto si trattava di canzoni straniere che avevano già venduto milioni di copie, spesso, peraltro, con testi molto belli, assolutamente scollegati dalla fantasiosa versione italiana.

Non vi lascio a bocca asciutta: l’immensa “Stand by me”, diventò “Pregherò”, vi giuro, è la verità.

Diventammo comunisti, dicevo, e c’iscrivemmo al PCI.

Prendemmo a frequentarne con assiduità ed entusiasmo le sezioni territoriali, acquisendo rapidamente la sacralità dei riti e respirando a pieni polmoni l’aria rassicurante ed, al tempo stesso, asfittica.

C’era una risposta per ogni più piccolo problema, non rimanevi mai col culo scoperto.
Contavi poco o nulla, facevi la gavetta, ma capivi perfettamente che un invisibile grande fratello ti aveva selezionato e ti stava preparando ad un qualche ruolo dirigente.

Non fu difficile capire quando bisognava intervenire e quando era meglio restare zitti.
Comunque, se prendevi la parola dopo un vecchio compagno che aveva detto delle clamorose cazzate (in particolare, ne ricordo uno che aveva due figli maschi disoccupati ed odiava le donne, perché toglievano il lavoro agli uomini) dovevi iniziare più o meno così: “Sono assolutamente d’accordo col compagno che mi ha preceduto, anche se…”.

Ovviamente (fortunatamente) il destino aveva disegnato per la grande maggioranza di noi percorsi diversi e variegati: il lavoro, spesso, ci ha portati lontano, ci siamo iscritti, e ci mancherebbero altro, alla CGIL, ci siamo sposati ed abbiamo messo al mondo dei figli.

Abbiamo contestato tutto quello che era possibile contestare in politica, abbiamo votato contro qualcuno o qualcosa, ci siamo anche astenuti disgustati; ma, almeno nello spirito, siamo rimasti semplicemente comunisti, anche un po’ stronzi, ma comunisti e ci commuoviamo ancora quando ascoltiamo “Vincenzina e la fabbrica”.

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